India: Orissa, la verità sui progrom arriva tre anni dopo

Tre anni dopo, l’unica “condanna” per i fatti dell’Orissa è arrivata dal basso, dal popolo, ma è anche la prima verità che resterà nella storia indiana. La follia estremista indù contro i cristiani del distretto di Kandhamal è stata condannata dal Tribunale nazionale del popolo, un’iniziativa della società civile indiana. Il verdetto che resterà purtroppo simbolico è stato impietoso, preciso e diametralmente opposto a quanto sostenuto da New Delhi: il governo non ha protetto i cristiani dalla furia induista che nel 2008 ha ucciso almeno cento persone e saccheggiato 295 chiese e seimila case con il risultato che oltre 54mila cristiani sono ancora sfollati.

Ma una prima luce è stata accesa sui fatti di tre anni fa: «Gli attacchi del 2008 nel Kandhamal – ha detto la giuria del tribunale che ha emesso la sua sentenza solo tre settimane fa – sono stati vasti ed eseguiti seguendo una minuziosa pianificazione». I cristiani che si sono rifiutati di abbandonare «la loro fede e convertirsi all’induismo sono stati uccisi o brutalmente feriti. Alcuni atti perpetrati contro di loro rientrano nella definizione di “tortura” per la legge internazionale». Oltre un migliaio le persone che qui a Bhubaneswar, capitale dello Stato di Orissa, hanno assistito alla lettura dell’atto di accusa. Tra queste c’erano attivisti, suore, preti e centinaia di vittime della violenza avvenuta nel Kandhamal.

La prima udienza del Tribunale nazionale (Npt) si era tenuta nell’agosto del 2010, nel secondo anniversario del massacro: 45 familiari delle vittime e alcuni sopravvissuti che hanno raccontato le loro esperienze terrificanti. Il tutto è stato raccolto da un gruppo di 15 esperti in un rapporto di duecento pagine dal titolo «Aspettando che giustizia sia fatta».

Rileggere quelle pagine oggi fa venire i brividi. Ci sono le accuse alla polizia di Orissa di «complicità» nelle violenze esplose nella giungla di Kandhamal dopo l’uccisione del leader Hindu Swarmi Lakshmanananda Saraswati nell’agosto del 2008. C’è la negazione della verità: nonostante i ribelli maoisti avessero rivendicato l’omicidio, i gruppi fondamentalisti induisti hanno sempre sostenuto che l’uccisione del leader indù fosse parte di una «cospirazione cristiana». Ma c’è anche l’indice puntato contro il governo locale che «ha fallito nel prevenire la violenza». Perché «le prove degli attacchi sono state distrutte sistematicamente per impedire il corso della giustizia».

I sopravvissuti, sfollati come altri che sono sfuggiti all’odio religioso, ci raccontano però anche di induisti che «hanno appoggiato e protetto i cristiani durante gli attacchi o li hanno aiutati a tornare nelle loro case sono stati presi d’assalto. «Sidheswar Pradhan, per esempio, un leader induista, è stato ucciso per aver offerto protezione ad alcuni cristiani feriti», racconta un testimone. Le storie si somigliano tutte nella loro drammaticità. Come quella di Kamala Sahoo, un’assistente sociale che ha osato parlare a favore di un gruppo di cristiani e si è visto bruciare la casa.

Racconta il giudice cattolico in pensione, Michael F Saldana, che ha fatto parte del tribunale con altre eminenti autorità e magistrati indiani: «Se il governo avesse preso le necessarie precauzioni, la maggior parte della violenza poteva essere evitata. Nella violenza di Kandhamal i responsabili numero uno e due sono il governo di Orissa e quello federale centrale».

C’è da rabbrividire a guardare le fotografie che sono state prodotte come “prove” nell’indagine indipendente. Tra queste c’è quella del missionario padre Edward Sequeira, sopravvissuto miracolosamente dopo essere stato picchiato e rinchiuso in un orfanotrofio a cui era stato dato fuoco. E quella della meno fortunata Rajani Mahji, una studentessa universitaria che aiutava all’orfanotrofio e che è stata bruciata viva.

«Sono felice – ripete padre Sequeira che è stato ascoltato dalla giuria – di essere qui ad esprimere solidarietà nei confronti delle vittime e dei familiari». Ricorda anche che in mano, durante l’udienza, aveva la fotografia di padre Thomas Chellan, picchiato a sangue perché teneva stretta la croce della missione e il rosario. Entrambi si sono salvati, come la memoria di quel pogrom di più di tre anni fa.

Anto Akkara
 
Fonte: www.avvenire.it del 28 dicembre 2011

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